Nel variegato mondo del pallone, durante il nostro girovagare tra i numerosi campi di calcio, abbiamo scritto cronache ed effettuato interviste di ogni genere. Tuttavia, ci siamo accorti che spesso abbiamo tralasciato di descrivere momenti emozionanti, capaci di ricordarci che l’uomo è l’essenza di tutto, nel bene e nel male di ogni evento. Così ci siamo persi in disquisizioni tecnico tattiche che il nostro mestiere di giornalisti sportivi impone per ovvie ragioni. Sembra quasi che non interessi nessuno, nemmeno a noi scriventi, se questo o quel giocatore non renda com’è nelle proprie capacità di grande atleta, a causa di problemi fisici o psicologici. Ma c’è sempre un momento in cui la riflessione è d’obbligo e certi insegnamenti che derivano da alcuni emblematici messaggi devono necessariamente essere presi in considerazione per la loro profondità di pensiero. Nell’osservare la partita Torino – Milan di sabato scorso, ci siamo per un attimo estraniati da certe realtà di gioco e valutazioni arbitrali che spesso sono fonte di polemiche feroci, spietate e talora improduttive ai fini del risultato finale. I nostri occhi si sono soffermati su Kakà e sulle sue difficoltà di inserimento nell’ambito della squadra, causa la lunga assenza dai campi di gioco negli anni in cui è stato a Madrid. Un ritorno, il suo, che ha fatto discutere non certo come uomo ma come atleta. Ma c’è un punto importante da focalizzare che va oltre il minimalismo valutativo della condizione fisica del calciatore, ed è l’anima della persona, la sensibilità dell’uomo che sfocia nei valori e nella fede in Dio. Ebbene durante un’azione di gioco Kakà s’infortuna procurandosi una lesione all’adduttore sinistro e, per questo motivo, deve restare fuori squadra almeno un mese. “Chiedo vicinanza e comprensione. Rinuncio allo stipendio finché non sarò tornato a stare bene e sarò guarito”. Questa è stata la sua risposta. Un’onestà intellettuale che sbalordisce, che disarma, soprattutto in un mondo che fa del dio denaro l’unico vero senso della rincorsa al pallone che ti dà fama, ricchezza e prestigio. Certo, non vogliamo enfatizzare questo raro esempio di sensibilità in maniera da apparire inutili buonisti e ridicoli bacchettoni, tuttavia non possiamo prescindere da ciò che dovrebbe essere consuetudine, soprattutto in considerazione del momento così difficile dal punto di vista economico del nostro Paese, in cui milioni di giovani sono senza lavoro e quindi senza futuro. Kakà è un ragazzo che stimiamo non solo da oggi per il suo sentire, per la sua educazione in campo e fuori, per la sua ammirevole fede in Dio che è il vero significato della sua vita. Il brasiliano bloccato dall’infortunio, riflette su alcuni passi della Bibbia e, in particolare, su alcuni versi del poeta Abacuc: “Anche se il fico non fiorisce e non vi è alcun frutto sulle viti, se cessa il prodotto dell’olivo, i campi non danno più cibo. Anche se il gregge è scomparso dall’ovile e non ci sono buoi nelle stalle, io gioirò nel Signore, esulterò nel Dio della mia salvezza”. Questo è Kakà, questo dovrebbe essere il mondo del calcio e non solo, a prescindere dall’essere credenti o no, di avere la pelle nera o bianca, oppure di essere diversi. Competizione sì, giusti guadagni sì, ma soprattutto sforzarsi di portare avanti la filosofia del rispetto e di quella lealtà che sembra persa inesorabilmente nei meandri dell’egoismo umano. Fare gol è importante, vincere è talora essenziale, ma a tutto c’è un limite. In fondo, non dovrebbe essere così strano per un ricco e famoso calciatore che si infortuna, poter dire: “Chiedo comprensione e vicinanza, non soldi”.
Salvino Cavallaro
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